THE UGLY STEPSISTER, di Emilie Blichfeldt

Una vedova sul lastrico sposa un vecchio uomo che, già subito dopo le nozze, viene stroncato da un coccolone. Costretta a prendersi in carico la figliastra, non può però fare lo stesso con le finanze del fu marito, in bolletta pure lui. L'unica speranza vige sulla primogenita Elvira, nella speranza sposi il principe. La non eccelsa beltà della ragazza però la costringe però a una serie di crudeli trattamenti che...

Non so se lo ricordate, ma nell'anno domini 2000 impazzò al cinema il semi-dimenticato Vertical limit, a detta di molti dell'epoca un film in grado di far venire le vertigini agli spettatori. Recuperatolo qualche anno dopo in una passata televisiva, provai con grande sgomento che non solo si trattava di un film di merda, ma procurava una tensione pari a quella di una camomilla.

Era l'antesignano di tutte quelle false pubblicità (anche se il podio va all'ambulanza pronta alle proiezioni de L'esorcista) annesse al film scandalo del momento.

Parafrasando quindi il maestro Battiato, "in quest'epoca di retelling ci mancavano gli idioti dello sponsor". Perché quel mezzo cancro de La canzone di Achille ha avuto per tutti coloro digiuni di Lindsay Clarke un'impennata social durante il lockdown, generando una mania a tratti inspiegabile che ci siamo sorbiti in tutte le salse. Ora, non voglio essere maligno, ma a una certa mi viene quasi da dire che i live action della Disney sono solo un naturale e ineluttabile fenomeno parallelo.

Questo The ugly stepsister quindi esce nel periodo giusto, nel momento giusto e affrontando pure i temi giusti. Non solo ingloba ben due sotto-filoni particolarmente in voga, ma è forte anche dello sponsor adatto che ha voluto informarci di come le sale dei vari festival siano state abbandonate in massa durante le proiezioni da un pubblico vomitante perché, parrebbe, trattasi di una pellicola di insostenibile efferatezza. 

Lungi da me paragonarlo a Vertical limit, ma se me lo ha ricordato dopo quasi due decadi di oblio...

In realtà è parecchio ingiusto cassare in questa maniera l'esordio della norvegese Emilie Blichfeldt, che non sarà al limite come è stato descritto, ma possiede comunque le sue scene forti, un paio davvero difficile da reggere, e delle motivazioni fortemente sentite che danno all'operazione una sua ferrea coerenza di base.

Entrata a pieno titolo nel reame dorato di Shudder, Den Stygge Stesøsteren caracolla con passo da galateo nella strada già arata da Povere creature! e (brivido e raccapriccio...) Barbie, portando avanti un discorso ben preciso. Perché oltre a essere una rilettura della favola di Cenerentola è anche una riflessione sul corpo della donna nelle varie epoche, sottolineando l'attitudine della Storia nel marchiare col proprio terzo occhio, quello sociale, gli ultimi, categoria a cui il gentil sesso è stato relegato anche nelle gerarchie più alte. A una certa, centra la quadra molto più di quanto la Fargeat aveva fatto con il suo The substance, o di come aveva provato a fare piuttosto maldestramente quella ruffiana della Ducurnau con Titane.

Perché la deriva body horror affronta soprattutto un discorso sociale (purtroppo non approfondito in tutte le sue sfaccettature) che fa intendere come l'esteriorità sia la dimensione a cui la donna è stata relegata. Elvira sarà costretta a torture indicibili per inseguire un canone di bellezza che le permetta di appropriarsi dello status necessario a elevare la famiglia e portarla fuori dal baratro che essa stessa alimenta, giacché ai vari comfort non vuole rinunciare. È l'unica occasione concessale, almeno finché starà lì, e sembra essere la sola che ella stessa riesce a concepire. 

Non è un caso che il film inizi con una ragazzina sognante, che affida all'occhio dello spettatore le sue fanciullesche fantasie (attenzione all'utilizzo della fotografia) per essere poi sporcata e smantellata delle proprie certezze man a mano che i minuti trascorrono.

Anche perché, mentre lei si fa martoriare il naso con uno stiletto e lo stomaco con una tenia, è la madre a godersi la vita in virtù del suo futuro successo.

Arrivano poi tutti i problemi.

Trattasi questo di un retelling intelligente nelle intenzioni, certo, ma all'atto pratico vi sono parecchie ingenuità. E passino i vari manufatti fuori tempo (un apparecchio ai denti?) ma l'approccio alla materia rende tutto un po' complicato e inevitabilmente grossolano.

Prendiamo Shrek - sì, sono serio. 

Quello dell'orco verde è una parodia. La differenza sta proprio nell'assunto che lo spettatore sappia già di cosa stiamo parlando, e infatti le fiabe sono comunemente accennate in quella che è la loro versione più famosa. Non va quindi spiegata la genesi di Pinocchio (che non è una fiaba, ma sono americani...) o perché ci troviamo un lupo vestito da nonna nel letto, perché si parte dando per scontata la familiarità del visionante.

Con il retelling invece tocca dare forma e contesto... cosa che frau Blichfeldt non fa. E quando Agnes viene chiamata Cenerentola dal nulla, crea uno strano gap. 

Lo stesso creato dalla carrozza trasformata e dalla scarpetta mostrata solo all'ultimo, partendo dall'assunto che si debba già sapere lo svolgimento - e non tiro in mezzo la Gatta Cenerentola di Basile perché pure al mio essere cagacazzo c'è un limite.

Il che è un peccato, perché la regista ha un gusto notevole per imbastire le scene, modella ogni svolta di trama su un assunto sgradevole, morte del patrigno in primis, e dimostra di aver fatto propria la lezione di Walerian Borowczyk nelle scene che lo richiedono. Prende poi troppo gusto nel calcare la mano anche quando non richiesto, risultando a tratti gratuita anche di fronte a uno svolgimento ripetitivo. E va detto che, nel marasma di frattagliume mostrato, la capitombolata finale dove tutto quello per cui Elvira si è deturpata viene meno in pochi, significativi gesti, colpisce più di una qualsiasi mannaia.

Di tutto il film, è stata proprio quella sequenza e il suo senso di disfatta ad essermi rimasta dentro.

Mentirei se dicessi che mi è piaciuto quanto vorrei, eppure qualcosa, con quella sua protagonista, mi ha lasciato. Ironico però che la sua millantata bruttezza sia portata in scena da Lea Myren, che nella vita fa la modella.

Non so perché, ma la sua bellezza mi ha ricordato quella della cattivissima Robin McLeavy.






Commenti

  1. Lea Myren è una non brutta, ma è una veramente brava per la parte, un film che dialoga con "The Substance" e forse rappresenta un passo indietro, eppure mi è piaciuto parecchio ;-) Cheers

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    1. Lea ha una bellezza tutta sua, come la McLeavy: non è la bellona del film, ma si mangia la scena.
      Figurati che a me, al netto dei suoi difetti, è piaciuto più di quel Society tarocco 🤪

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