THE SURFER, di Lorcan Finnegan

Desideroso di portare il figlio a surfare nel luogo dove è cresciuto e di comprare la villa che fu di suo padre, un uomo inizia una grottesca guerra con un gruppo di fanatici nativi che vogliono impedirlo nell'intento a tutti i costi...

La carriera di Nicolas Cage è a un punto di svolta. Libero dai suoi fantasmi e dai debiti (almeno, fino alla prossima asta di fumetti di Superman) che lo hanno costretto ad accettare la qualunque, finalmente può scegliersi i ruoli che ha sempre desiderato, prestando la propria performance a titoli decisamente atipici, coraggiosi e, alla loro maniera, in un modo o nell'altro estremi.

Film come Il colore che venne dallo spazio, Pig, Dream scenario e l'istant cult Longlegs hanno visto la luce anche grazie al suo diretto intervento. Come disse Shrader ai tempi di Cane mangia cane: solo lui e Dafoe sono abbastanza pazzi da prestarsi a certe cose.

Uno che invece ha saputo fin da subito cosa voleva fare da grande invece è proprio Lorcan Finnegan, un irlandese tutto matto che però, forse, come tutto quelli un po' fuori di melone, ha capito più di molti cosiddetti "normali" certe cose riguardo l'esistenza.

E a proposito della vita, tenete a mente quel fare da grande perché è un termine che coinvolge gran parte della sua cinematografia, venuta alla ribalta col suo secondo lavoro (il più difficile nella carriera di un artista - semicit), quel Vivarium che molti di noi si sono schioppati durante il lockdown, cosa che ha reso la visione ancora più immersiva.

Lì si mettevano alla berlina gli obblighi sociali, quegli step forzati che in un modo nell'altro siamo richiamati a eseguire e ai quali non tutti riescono a sottrarsi volontariamente, complice anche lo sguardo implacabile delle generazioni precedenti che non hanno saputo o potuto godere appieno dello strappo. Quando però bisogna fare i conti con gli adulti che siamo diventati, come ce la sbraghiamo?

Divorziato amichevolmente da Garrett Shanley, che ha sceneggiato tutti i suoi precedenti film, stavolta Finnegan si affida allo script di tal Thomas Martin per un film folle, assurdo, sconclusionato e, nonostante tutto, incredibilmente lucido... insomma, una cosa alla quale solo un pazzo come Nicolas Cage poteva prestarsi.

The surfer infatti è una pellicola costruita interamente sulle spalle del più estroverso dei Coppola, qui incredibilmente bravo e misurato come non lo vedevo dai tempi di Joe, pur concedendosi tutti i momenti che per un motivo o per l'altro lo hanno reso celebre. C'è infatti la solita Cage-rage, ma è così funzionale alla trama e avviene in una maniera tanto graduale (il contesto poi la rende ancora più alienante) da allontanare qualunque intento memabile, lasciando invece un senso di angoscia difficile da descrivere e comprensibile solo a seguito della visione, una delle più snervanti degli ultimi anni. Perché qui abbiamo davvero l'implacabile svolgersi di una lenta e distillata tortura legalizzata all'animo dello sfigatissimo protagonista...

Ha quasi del miracoloso la gestione degli eventi e degli spazi, dato che gran parte del minutaggio avviene tra la spiaggia e il parcheggio adiacente, tutto senza che il ritmo ne venga inficiato o si perda mordente. Anzi, non c'è un attimo di noia, la tensione cresce mano a mano che passano i minuti e il senso di alienamento lasciato dalla cinepresa finisce con il rendere la visione quasi estenuante per come il personaggio di Cage venga spogliato di tutto di minuto in minuto.

E lui insiste, tra rivelazioni di un passato ombroso e l'ossessione per il surf, quello che ha rappresentato una certa casa e la questione relativa agli omoni che in spiaggia spingono per questa esclusività machista, grottesca e quasi demente.

Il film di Finnegan si regge su queste assurdità, e il suo occhio accompagna una sceneggiatura arguta in maniera sopraffina, suggerendo con stacchi di montaggio molto più di quanto rivelato dai dialoghi, arricchendo tutti i sottotesti già presenti sulle pagine di Martin.

Gli adulti che siamo diventati quanto si distaccano veramente dall'idea che avevamo da giovanissimi? Quanto gli eventi passati hanno influito sulla nostra crescita e, soprattutto, cosa siamo disposti a sopportare per far parte di un gruppo, essere riconosciuti come membri di una comunità e approfittare dei suoi privilegi?

La narrazione migliore non è mai quella che ti spiattella il proprio messaggio (capito, vero?) bensì quella che, pur parlando d'altro, che sia transessualità o del divino, riesce a veicolare i veri intenti dell'autore. A Finnegan e Martin infatti del surf interessa poco o nulla, lo lasciano volentieri a John Milius, nel loro pieno sadismo l'intento principe rimane lo spogliare di tutto una persona per farne risaltare le fisime, gli interessi e l'ostinazione di raggiungere un certo obiettivo che, forse, alla fine, non gli è nemmeno servito più di tanto. Emblematico a tal senso è che pur pullulando di surfisti o sedicenti tali, le sequenze sulla tavola rimangono sempre sullo sfondo, non c'è un vero feticismo per le onde, qui ridotte a mero arredo scenografico in lontananza.

Resta quel paragone suggerito in più di un'occasione con un personaggio (apparentemente) di contorno, quel ridursi come lui e quella surfata finale, ovviamente negata da un taglio di montaggio volutamente assassino, che più che sull'onda si concentra sullo sguardo del protagonista, intento a chiedersi se gli sia davvero servito tutto quello, se ogni lotta fatta in quelle folli giornate abbia davvero avuto senso.

Tra dilemmi morali, fantasmi del passato che ritornano da noi e complotti con tanto di morti freddati, il film ci porta in un Patagonia di assurdità che non lasciano un attimo do respiro, fino a quel finale quasi liberatorio che intenzionalmente non glorifica la matassa affrontata dall'anonimo personaggio principale, donandoci un ritratto desolante dell'umanità, delle persone e della moderna società d'appartenenza, qualunque essa sia.

Finnegan, anche se con un nuovo compagno di giochi, dimostra di essere un regista con una precisa impronta stilistica, fedelissimo alla propria linea personale a costo di apparire indigesto. E a noi va benissimo così.

Finnegan aggiunge un'altra tacca alla sua cintura di celluloide, mentre Cage prosegue in questo suo percorso che spero possa continuare il più a lungo possibile, anche se nel mezzo ci è toccato un Prisoners of the Ghostland.

Se comunque esistono film così, una stagione del cacchio come l'estate comincia a essere vagamente più sopportabile.

PS: tra l'altro, l'ultima apparizione filmica del compianto Julian McMahon. Riposa in pace, ragazzone!






Commenti

  1. Film meraviglioso, ma che angoscia. Mi sentivo morire di sete e cuocere al sole quanto Cage. Neanche la bellezza di McMahon mi ha risollevato lo spirito!

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Ragazzi, mi raccomando, ricordiamoci le buone maniere. E se offendete, fatelo con educazione U.U

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